Dopo aver subito gli insulti razzisti è scattata anche la squalifica per una giornata: è evidente che nel calcio italiano sono molte le cose che non vanno, sui regolamenti, sulla loro applicazione, sui riflessi nella scarsa cultura dello sport e del "rispetto" nel nostro Paese. Sulley Muntari , il calciatore del Pescara che nell’incontro contro il Cagliari di domenica 30 aprile è stato vittima di cori razzisti e poi ammonito dall’arbitro per le richieste di interrompere la gara, ed è giunto fino ad abbandonare il campo in segno di protesta, ha raccolto la solidarietà dell’Onu. Zeid Ra’ad al-Hussein, alto commissario Onu per i diritti umani, si è schierato al fianco del centrocampista ghanese: “E’ un motivo di ispirazione per tutti noi che ci occupiamo di diritti umani – l’elogio di Zeid - Il problema del razzismo richiede una maggiore attenzione da parte della Fifa”. Alla fine del primo tempo Muntari ha parlato con un bambino che seguiva l’esempio negativo dei grandi e gli ha donato la maglia ma nella ripresa i cori razzisti sono proseguiti, il calciatore ha segnalato il fatto all’arbitro chiedendo che venisse interrotta la gara, ma in tutta risposta è stato ammonito e ha quindi deciso di abbandonare il campo.
“Ho apprezzato l’intento educativo di Muntari che come prima reazione alle offese ha avuto quella di parlare con un bambino e spiegargli la negatività del suo gesto – commenta Carlo Balestri, ideatore dei Mondiali Antirazzisti Uisp - Credo che sia un atteggiamento giusto e condivisibile, da parte di tutti i giocatori. I campioni del calcio sono diventati esempi e modelli da seguire e lui si è mostrato consapevole di questo ruolo, ma evidentemente davanti all’opposizione dell’arbitro non è riuscito a reagire diversamente. L’arbitro non ha sentito niente e lo show business è dovuto andare avanti, purtroppo sono pochi i direttori di gara che invece di sminuire decidono di reagire a questi episodi, e questo succede dalla serie A ai campetti di periferia. Nemmeno i nostri tornei sono immuni da tali atteggiamenti”.
“Si deve ripartire da una riflessione all’interno dei campi di calcio professionistico, lavorando su un percorso educativo che coinvolga i calciatori in campagne serie e non di facciata. Noi abbiamo iniziato un lavoro simile con il progetto Il calciastorie, proponendo un modello efficace per contrastare le discriminazioni, che metteva insieme campioni dello sport e giovani. Perché al di là degli spettatori, che possono avere maggiore o minore sensibilità, se sono i veri protagonisti a non dimostrare rispetto e attenzione al tema diventa più difficile combattere le discriminazioni. Una campagna educativa seria deve coinvolgere in maniera responsabile gli attori del calcio, le società professionistiche e i calciatori, ed essere rivolta a studenti e tifosi. Inoltre, questo lavoro deve raggiungere anche i campetti di periferia, dove gli episodi di razzismo sono più nascosti ma purtroppo sempre più diffusi”. (Elena Fiorani)
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